venerdì 28 dicembre 2018

Non eravamo una banda di idioti, ma una manica di pirla


Il 29 luglio per me fu un giorno bello. Non perché fosse domenica, in fondo per me i giorni della settimana, in particolar modo tra maggio e settembre, non fanno una gran differenza. Più ancora del giorno, fu la serata del 29 luglio ad essere particolarmente bella, anzi una delle migliori dell'estate: si mangiava gelato e si parlava di unicorni. 
Il mattino seguente c'era il sole, io stavo al porto aspettando che arrivasse la nave con cui lavoravo quel giorno. Fu lì che ricevetti il messaggio. Poche parole, neanche dieci. "Ragazze, ho una notizia bruttissima: è morto il Gio".
Il Gio. Verso la fine del 2014 c'eravamo parlati un'ultima volta, dopo svariati anni. Non perché avessimo litigato o per qualsiasi tipo di dissapore, ma, come spesso accade, semplicemente perché si percorrono strade diverse, e non solo in senso figurato. Non si passava più dai soliti bar. E poi si era pure trasferito, non lontano, forse una dozzina di chilometri, quel tanto che basta per non incrociarsi mai e infatti, dal 2014, ricordo di averlo visto una sola volta, io a piedi e lui in auto, senza che lui mi notasse.
Insomma, era una persona che ormai era uscita dalla mia vita e neanche da poco tempo, direi da un decennio abbondante.
Il fatto è che prima, invece, ne faceva parte in maniera assidua. Avevamo iniziato a frequentarci a causa della pallavolo. Quando io andai a schiacciare i miei primi palloni, lui già faceva parte della squadra. Io avevo 16 anni, lui 21. Giocavamo in un posto che definire palestra è eccessivo: le linee di delimitazione si trovavano solo a una manciata di centimetri dalle pareti di cemento. E come quel campo veniva imprigionato in uno spazio tanto stretto, la sua bravura e quella di altri miei compagni di squadra (mi sfilo tranquillamente dal gruppo, io sono sempre stato uno scarsone) restava incatenata anno dopo anno ai campionati di periferia del CSI, tra le squadre dell'oratorio e quelle formate dai cinquantenni che continuavano imperterriti a non attaccare le ginocchiere al chiodo. Così nell'anno in cui salutai tutti e me ne andai in Svezia, lui e gli altri decisero di provare a puntare un po' più in alto. Niente di che, ma effettivamente nel giro di due anni arrivò una promozione in serie D. Alla fine della stagione successiva, la squadra si sciolse. Di quell'esperienza ricordo soprattutto due cose: una grigliata al lago in attesa di una partita mai giocata causa Giovanni Paolo II morente (e da allora posso fregiarmi del fatto di essere stato convocato a giocare in serie D una volta ogni morte di papa) e una telefonata a lui, il presidente, per dirgli che dovevo pagare una porta in vetro che avevo mandato in frantumi con un calcio. Un'altra porta sfasciata fu probabilmente il momento più intimo con lui. 
Oltre alla pallavolo c'era molto altro: i sabati sera a bere i cubini, i pomeriggi a pesca (io dilettante assoluto, lui che si costruiva le mosche da solo). La musica. A quel tempo internet andava a 56k, in due ore se andava bene si scaricava una canzone, quindi ci scambiavamo ancora cd e addirittura cassette. Se non ricordo male il primo album che mi prestò fu Rust in Peace dei Megadeth. Poi c'erano i concerti. Tra gli ultimi: Rammstein, Apocalyptica (al Rainbow di Milano alle 18!), Elio. L'ultima volta che ci eravamo parlati mi aveva dato l'indirizzo web del gruppo in cui suonava, dicendomi di fargli sapere cosa ne pensavo. Non ho mai visitato quel sito, non gli ho mai fatto sapere cosa ne pensavo. Ma due settimane fa sono andato a un concerto in sua memoria e ho sentito le sue linee di basso. Non l'avevo mai sentito suonare prima. 
Tra qualche minuto sarà il 29 dicembre. Saranno passati 5 mesi da quel bel giorno d'estate e da quella bella sera di unicorni e gelato. Nel frattempo ho imparato che gli amici, se veramente sono stati tali, per quanto possano prendere una strada diversa, lasceranno per sempre un'impronta profonda nella nostra anima.