giovedì 31 dicembre 2015

Vol. IX

Ci sono veramente poche cose in cui riesco ad essere almeno vagamente costante. il ciddì-riassunto dell'anno è una di quelle. Quindi anche per il 2015 non viene a mancare la mia hit di canzoni più o meno belle che hanno lasciato un segnetto, un graffio, un solco o una voragine nel mio cuoricino, vuoi perché si sono legate indissolubilmente a qualche evento specifico o semplicemente perché le ho ascoltate pignantamila volte. Come ogni anno rimane fuori qualcosa di meritevole, ma nonostante il tempo voli e vada (anche se non ce ne accorgiamo e anche se più ancora del tempo che non ha età siamo noi che ce ne andiamo), 80 minuti restano sempre 80 minuti. 
  1. Los Jaivas - Mira niñita
  2. Placebo - My sweet prince
  3. ...A Toys Orchestra - Late September
  4. Afterhours - Pelle
  5. Amesoeurs - La reine trayeuse
  6. Dva - Labalibe
  7. Agalloch - Kneel to the cross
  8. Maurizio Pollini - Notturno op. 9 n. 1 (Chopin)
  9. Parto Delle Nuvole Pesanti - Sule
  10. Louise Attaque - La valse
  11. Léo Ferré - Avec le temps
  12. Bis - Eurodisco
  13. Fabrizio De André ft Capossela - Valzer per un amore
  14. Twiggy Frostbite - I'm still here
  15. Radiohead - No surprises
  16. Altar Of Plagues - Twelve was the ruin
  17. Jason Tai - Vale of tears
Durata: 79 minuti e 20 secondi...

martedì 29 dicembre 2015

Dieciscatti 2015 light blue edition

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Una gatta che miagola dietro una porta chiusa, sta nevicando forte ed è mattino presto. Molto presto, tipo le 6,15. Apro la porta. La gatta mi guarda e mi attende, sprofondata nella neve. Io sono in pigiama e infradito. Lascio le infradito, faccio un passo in avanti, la neve mi arriva fino a oltre le caviglie, ce ne saranno venti centimetri. La gatta non mi attende più.

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-C'è un gatto. Ma è un altro gatto, lontanissimo da quello di prima. Sta sdraiato in fondo al giardino. Lo guardo. Mi guarda. Sono lì fermo ad aspettare e allora arriva. Mi fa felice la sua voglia di vedermi. Mi fa triste il suo bisogno di vedermi. Andiamo insieme ad accarezzare le betulle, che non si esprimono quasi mai sulle loro necessità affettive.

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Tra le luci di una città mai vista prima, saliamo verso il cielo. Io e una persona mai vista prima. Saliamo solo di pochi metri e a scatti. A tratti ci guarda, minaccioso ma immobile nella sua posa forse troppo stereotipata, un tirannosauro. Poco oltre l'acqua scorre, con una veemenza limitata dal ghiaccio. Qualche settimana dopo, mi capiterà di pensare che siano le sette di sera quando invece sono quasi le dieci.

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Guardo verso l'esterno, ci sono solo due piccole linee di luce. Non danno fastidio, anzi sono quasi da considerarsi un lusso. Non c'è spazio per le ombre, ma non occorre vedere tutto il tempo quel che si sa già che c'è. Non fa freddo quando ci si sveglia. Ma è presto, troppo presto. Fa male aspettare che arrivi un'ora prestabilita. Sono notti da Chopin.

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Io l'aurora boreale non l'avevo mai vista prima di quel giorno. Me la immaginavo diversa. Ma è solo settembre e siamo a sud, è già tanto che si veda. Una luce bianca che non danza, ma a modo suo pare armoniosa. Non ha la pesantezza di chi non sa ballare. Leggera pulsa e se ne va, poi torna, si fa più intensa, si allontana. Torna. E non c'è più.

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Uno scoglio quasi sulla spiaggia. Con la bassa marea forse l'acqua non lo coinvolge. Ma in quel momento lui sta lì in mezzo e le onde si spezzano. Alcune sono tenaci e gli girano intorno, si incontrano di nuovo per poi ritornare da dove sono venute. Altre sono deboli. Due gocce che fino a un attimo prima erano legate d'un tratto si infrangono sulla pietra e non hanno una spinta sufficiente per rivedersi alle sue spalle. Perse forse per sempre.

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Il sentiero è coperto di foglie, del resto l'autunno avanza e non ci sarebbe da stupirsi se dovesse iniziare a piovere violentemente. Non importa, bagnarsi è una delle opzioni contemplate. Sono in competizione con chiunque sia davanti a me. L'ultima volta che ero salito in montagna era stato oltre due mesi prima, era ancora estate però a tratti aveva piovuto. Era stata una salita violenta. come questa. La meta non la conosco. Non so il dislivello. Non so quanta strada ci sia da fare. Basta fare un passo dopo l'altro per vedere dove si arriva. Se si fa tardi, si può tornare indietro senza essere arrivati. Può essere una di quelle occasioni in cui l'importante non è la meta, ma l'essenza del viaggio stesso. In alcune zone il vento è tanto forte da spezzare i rami, alcuni cadono non lontano da me. Sul sentiero ci sono anche alcuni tronchi, forse caduti di recente.

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-C'è un posto sotto cui non non ho identificato esattamente cosa potesse scorrere, circondato da cadute fatali. Da lì normalmente non si vede nessuno, ma si vedono molte cose. Erba, acqua, fili, silenzio, parole, corde, fiori, lamponi. Quasi sempre il sole. Mai altre stelle.

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Nelle vetrine ci sono animali esposti da quasi un secolo. Faccio fatica a capire se la luce si accende o si spegne, se la porta si apre o si chiude. Ma è il contrario di quel che è stato fino a quel momento. Un muro tra due mondi c'è sempre stato, ma in qualche modo il fluire di uno nell'altro era possibile. Ora è arrivato il periodo dell'aridità e tutto, ma proprio tutto, si fa deserto. Nei rari spazi in cui resiste poca acqua, ci sono sabbie mobili. Dietro la porta ora c'è una parete compatta e sigillata. Nulla entra e nulla esce. Si deve scegliere in che mondo stare, a quale appartenere. In basso si nota un corvo imperiale, a differenza delle rondini nere penso che nasconda qualcosa di più che una minima intenzione simbolica.

+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Sono in ritardo. Il sole è quasi sparito, ma non importa. Il giorno è adatto per andare sott'acqua. I sassi, le alghe, il freddo. Inciampo più volte ma non cado, faccio un piccolo salto e di colpo l'aria non c'è più. Salto, c'è ancora per un istante. Poi di nuovo tutto si fa liquido. Apro gli occhi, così anche i miei si bagnano di acqua salata. Anche se in quel punto il sale non si sente per niente. Potrei vedere di nuovo com'è la situazione là fuori. Torno sotto e decido di fare una piccola visita alla morte, apro la bocca e respiro acqua. Diminuisce l'intensità della luce. Per il momento però non posso ancora farle molta compagnia, non è carino quando fuori c'è gente che aspetta.

lunedì 30 novembre 2015

Bulgarian wood

Non pensavo che l'ultima -probabilmente- trasferta del 2015 mi avrebbe portato laggiù. E invece, il 21 mattina alle ore 11 e 15 locali, mi ritrovavo ad atterrare all'aeroporto di Sofia. Dopo aver lasciato parte dello stomaco tra i saliscendi dei vuoti d'aria, per iniziare al meglio l'esperienza in una nuova terra straniera segnata profondamente da una quantità inusuale -per me, ovvio- di caratteri cirillici. 
In parte il viaggio era stato deciso dal caso (del tipo che una settimana prima avevo cercato "ovunque" come possibile destinazione, affidandomi poi a una delle soluzioni più economiche, per la precisione la terza, alle spalle di Lourdes e di Poznań), in parte era stato deciso da altri (del tipo che avrei voluto organizzare degli spostamenti per andare a trovare qualche persona che però o non mi ha più fatto sapere nulla o è stata colta da imprevisti imprevedibili troppo cronoassorbenti), in parte era stato deciso da un'idea mia piuttosto stupida (del tipo che l'ultima persona con cui ci si era reciprocamente proposti di vederci era Sofia, da qui la decisione che se non potevo andare da Sofia, allora sarei potuto andare a Sofia, giusto per una simpatica coincidenza dei due nomi e la sola mancanza di una d). Dunque niente Portogallo, ma Bulgaria. L'aeroporto di Sofia ha una cosa che mi è subito piaciuta: è attaccato alla metropolitana, quindi a parte la fatica di trovare la navetta per arrivare al terminal 2, non c'è lo sbatti di cercare il bus giusto per arrivare in città. E pure l'ostello dove sono stato aveva la stessa caratteristica: ci sono arrivato quasi senza perdermi (sbagliare un paio di vie mi pare accettabile). Comunque la cosa che veramente mi premeva era farmi un giro sulla Vitoša. Non che mi premesse da una vita, neanche da qualche anno o addirittura pochi mesi: no, mi premeva da una settimana, giusto il tempo di scoprire come si chiamano le montagne intorno a Sofia. Chiaramente non avevo idea di come fossero i sentieri, di cosa si potesse vedere né di come si arrivasse da quelle parti, e chiaramente essendo arrivato di sabato l'ufficio turistico era chiuso e lo sarebbe stato fino al lunedì mattina. Troppo tardi, io volevo andare sulla Vitoša il prima possibile. Quindi dopo una prima giornata girando qua e là, finalmente il secondo giorno è stato il momento di salire in montagna. Per andare dove? La risposta l'ho trovata grazie a Google: mi avevano detto del monastero blablabla e delle cascate blablabla, ma già che non sapevo dove prendere il bus 63, ho deciso che era più facile prendere il tram 5. Solo non sapevo quanto distante fosse quella meta improvvisata, né il dislivello da affrontare, né le condizioni del sentiero. Beh, il sentiero era facile e largo, tra andata e ritorno stimo una dozzina di kilometri, quindi prima che facesse buio ero di ritorno. Mi fa bene stare nei boschi. Forse perché i boschi sono un posto in cui è più giusto che altrove stare da soli. E poi ho potuto abbracciare di nuovo delle betulle, che non mi fa male. Per la cronaca, alla fine mi sono ritrovato a Zlatnite Mostove, da cui passò pure Morgan Freeman, per dire. La passeggiata nel bosco è stata la cosa più bella che ho fatto da quelle parti. Anche perché nel sacchettino di frutta secca che avevo meco c'era pure l'ananas disidratato e addirittura dei pezzetti di cocco. Il giorno successivo invece ho provato una di quelle sensazioni che d'impatto sembrano destinate a cambiare la vita. Me ne stavo a guardare una serie di passeriformi imbalsamati, pensando al fatto che probabilmente si trovavano lì da circa ottant'anni, quando d'improvviso qualcosa è cambiato totalmente. Si è spenta una luce, si è chiusa una porta, è morta una cosa che non so come definire. Qualcosa che assomigliava a una capacità di sapersi illudere sempre, ovunque, comunque. Al dolore quasi fisico ne é seguita una calma simile a quella che si può avvertire nel momento in cui sopraggiunge la rassegnazione. Ho l'impressione di essere diventato un po' peggiore quel giorno. Alle 4.22 del mattino successivo, l'ultimo grido, disperato, addolorato, acutissimo, ha squarciato il silenzio della camerata da sei. Ma ha svegliato solo me, il nippone che farà il giro d'Europa in bicicletta e la taiwanese che ha deciso di lavorare per un po' nei balcani non si sono accorti di nulla.

venerdì 16 ottobre 2015

Una gita a...

Un giorno, ad agosto inoltrato, andammo in luoghi montani un po' diversi dal solito. Stavamo a quote tali che le zecche non abitavano tra quei fili d'erba, in compenso sul terreno impaludato dai piccoli torrenti crescevano i camemori. Ce n'erano davvero molti e dopo aver fatto un'escursione verso un lago ancora semighiacciato (in cui mi capitò anche di vincere la scommessa "se riesci a starci più di un minuto...") ci dedicammo alla loro raccolta. Era dal 1997 che non mangiavo un camemoro. Dai tempi in cui stavo a Espoo. Da allora avevo avuto modo di provare marmellate e bere liquori fatti con tale bacca, ma un camemoro vero e proprio non l'avevo mai più mangiato. Così ne assaggiai uno. Occhi chiusi. In quel momento avevo ancora 16 anni, ero nei boschi dietro casa a raccogliere bacche, mentre Jesse -un bovaro del bernese di sei mesi alto quanto me- andava libero tra i sentieri e tornava non appena lo si chiamava. Un altro. Occhi chiusi. Eeva-Liisa, Hille, Mikko, la famiglia che mi ospitò per un mese. Altri ancora. Occhi chiusi. Nuuksio, il parco nazionale in cui dormii sotto le radici di un albero enorme. Montella e Veron che prese una traversa con un tiro da centrocampo all'Olympiastadion. Penne che non funzionavano. Ristorante Perugia. Kauppatori, fragole e piselli. Biglietti dell'autobus, carnet da dieci. Lepri immobili, di notte, sotto il lampione di fronte alla finestra. Un incidente assurdo in auto a 100 km/h tra i campi, l'uscita di strada e l'entrata nel fosso, incredibile come ne uscimmo illesi. La sauna, il fuoco, il sudore, la bruciatura da ferro che andò via solo dopo tanti mesi. Claudia che invece se ne andò via dopo pochi giorni e mi sentivo in colpa, perché l'avevo convinta io a scegliere Helsinki. Il primo (ed unico) giro in kayak. La prima volta che misi piede a Stoccolma (e in Svezia in generale), con un viaggio in nave, Rhonda e un liquore alla liquirizia travestito da analcolico. Le karjalanpiirakka, il salmone marinato all'aneto, le torte e il succo di limone. Avendo tenuto gli occhi chiusi per troppo tempo, mi ritrovai chissà dove, nel silenzio del legno. Davanti a me c'erano molti più camemori di prima. Questo significava essenzialmente una cosa: avevo lasciato il sentiero e non ero minimamente in prossimità degli altri. Occhi chiusi. Un rigore calciato sul palo. Mari Jonna, la vodka, il suo cane che tremava perché gliel'avevano avvelenato e lei che nel frattempo stava avvelenando un po' me, ma avrei tremato solo dieci anni dopo. Poche settimane prima il mondo era collassato giusto sulla mia testa io non avevo fatto nulla per spostarmi, anzi mi ero messo in una posizione più centrale. Il 16 maggio piansi, non andai dal dottore ma mi resi subito conto che mi s'era fratturata l'anima in più punti. All'uscita del buco nero trovai la Finlandia, luogo designato alla riabilitazione da una piccola morte. Ancora oggi resta un mistero perché decisero di regalare proprio a me quella borsa di studio. Non avevo alcuna cautela nel riporre i camemori che infilavo nel sacchetto. L'obiettivo era raccoglierne molti. Chiudere gli occhi. Quando li riaprii, qualcuno mi stava aspettando altrove.

mercoledì 16 settembre 2015

Stand by me

-Metà maggio, Malpensa, grandine. Voli annullati, voli rimandati, voli dirottati temporaneamente su Nizza, attese lunghe, parole crociate non fatte, cioccolata fondente che inganna l'attesa. Bus notturno, amici che passano accanto senza essere visti, mattino, arrivo. Inizio di una nuova estate.
-Casa temporanea trasformata in residenza estiva semipermanente, di settimana in settimana, di mese in mese, di stagione in stagione se fosse stato possibile. 
-La neve non voleva andarsene, incollata alle vette per settimane. Le piccole cascate ammorbidivano la terra, il fango induriva le scarpe, la neve bruciava la pelle.
-La trasferta durava un giorno di più, da solo in un paese che di notte è popolato dal nessuno. Tour improvvisi in terre sconosciute, con navi cinque stelle. Si raccontavano storie sconosciute al narratore, si vedevano orsi polari di un tempo che fu e che per loro non sarebbe forse mai più tornato.
-Le prime zecche della stagione, le rane, le storie di mele che non possono essere più coltivate, il vento, gli uccelli, le pecore. 
-Il primo tour in francese, gli appunti scritti in fretta, parole che scorrevano più nella mente che tra le labbra, turisti soddisfatti non si sa come, non si sa perché. Il primo tour in francese e in italiano, turisti italiani stupiti della mia nazionalità.
-Hallon giocava coi topi e se li mangiava con avidità, non una goccia di sangue, non un osso avanzato. Durga è rimasta solo pochi giorni, colei che difficilmente si poteva avvicinare si è allontanata e non è più tornata proprio mentre ero andato a prenderle i croccantini. Skelly che aveva fame. Come me. Skelly che aveva paura ad attraversare il ponte. Come me.
-Un ragno esplodeva sullo stipite della finestra, un altro moriva perché aveva deciso di dormire nel posto sbagliato, il terzo in quattro anni in una manica dell'accappatoio. Altri soffocavano nel giallo brillante del detersivo. I più fortunati venivano portati in salvo in un giorno di sole e di pulizie.
-Un passo, due passi, tre passi, quattro passi, cinque passi, millecentotrentatre passi da casa al reparto banane del supermercato. 
-Le partite a carte e in ogni mazzo c'erano tre jolly, qualcosa di troppo. 
-C'era un punto isolato e lontano dal mondo, raggiunto di corsa senza pensare a nulla, raggiunto pianissimo raccogliendo fiori, bagnandosi di sudore o a volte anche di pioggia, ma il sole poi arrivava sempre.
-Ho fatto un bagno nel fiordo, nelle sue acque scure in quiete. Un passo dopo l'altro verso l'abisso. Immergendomi lentamente, a occhi aperti e con la pelle pronta per vedere il buio ed ascoltare il freddo. Per un attimo la voglia era di farsi inghiottire dall'acqua dolce e incatenare dalle alghe, al riparo da tutto.
-La montagna è stata amica e insegnante, soprattutto per metafore. Non importa quanto sia evidente il sentiero, ci vuole poco per perderlo. Se vuoi raggiungere la cima, impara a camminare anche da solo, perché non sempre ci sarà qualcuno che troverà abbastanza tempo o voglia per accompagnarti. 
-Come ai tempi in cui ci si scambiava le figurine (cosa in cui sono sempre stato pessimo), ci si scambiava fantasmi con demoni. 
-Inizio settembre, ultimi giorni di lavoro e primi saluti, gente che se ne va, appartamenti che si svuotano, luci che si spengono, porte che si chiudono, mani che si aprono, pullman che partono, messaggi che arrivano. 
-Ho visto la prima aurora boreale. Nasi all'insù per vedere una luce fioca fare movimenti rapidi, disegnare forme diverse, fermarsi e ripartire. Naso all'insù orientato verso un mondo parallelo inesistente.
-Prima metà di settembre, Geiranger, sole. Ore di viaggio, riposo, ore di viaggio, riposo. Gotemburgo, Trelleburgo, Amburgo, Bamberga, San Bonifacio. Montagne, mare, multe, pirati a St Pauli, birra, birre, treni in ritardo, coincidenze perse, cioccolata fondente che inganna l'attesa. Treno pomeridiano, lacrime di qualcuno che chissà da dove arriva, sorrisi di sua figlia, commenti razzisti vomitati da gente che dovrebbe stare sotto i treni invece che sopra, arrivo. Fine di una vecchia estate.

Ma cosa si prova quando non si ha niente, nemmeno dei ricordi cui aggrapparsi, quando è notte fonda?

venerdì 1 maggio 2015

Così che tu possa sentir per me quasi una solitudine

Pensando ai miei gusti climatici, tutto ciò aveva avuto un sapore inverosimile, non avrei potuto immaginare una beffa del genere: eravamo nati in un deserto infuocato per morire tra i ghiacci e le nebbie in una danza di neve. Morire danzando è stato qualcosa di estremamente grottesco. Insopportabile. 
Dopo tutto questo tempo, stanno svanendo le parole scritte dietro a foto e disegni colorati, tra altri anni lasceranno il posto a qualche nuova eco di pensieri che forse non sono neppure mai esistiti. E un giorno, anche l'eco finirà o sarà semplicemente una flebile percezione, leggerissima e sfuocata, come quella di terremoti lontani che sento nei nervi ma non nella pelle. Tutto il resto l'ho chiuso in cristalli, che rimangono semi-sepolti in quel deserto in fiamme che ogni tanto sembra destinato a sopirsi per sempre sotto le montagne di neve, dove ogni baluginio sembra morire nella nebbia e nella notte, fin quando ciclicamente tutto si scioglie al ritorno della luce. Quei cristalli hanno sempre avuto punte acuminate, ma una pelle callosa e ispessita diventerà una protezione sufficiente per non sentire più alcun dolore quando ci si passerà sopra. E proprio per questo quel giorno diventerà inutile maneggiarli. 
Hai paura del buio? No, ho paura della luce, perché al buio puoi far finta che esista tutto ciò che vuoi, la luce invece non finge, devi intrappolarla bene, chiudere ogni spiraglio. La luce ha il potere: se la fai uscire, vedo chi non c'è. Allora le palpebre erano state un'arma efficace, serrande abbassate sul mondo: ci si poteva addirittura raccontare cosa si vedeva con gli occhi chiusi. Dieci scatti. Api e bolle di sapone. 
Ho imparato una nuova lingua per poterti non parlare più. Proprio ora ne sto apprendendo un'altra, così che nella testa ho sempre più parole, ma sempre meno me ne restano nella bocca e sulle dita.

sabato 25 aprile 2015

25 aprile 2015

Ma no che non è finita a piazzal Loreto,
si è vinta una battaglia ma non la guerra
perché il taglio di una pianta non è completo
finché le radici restano sotto terra..

Se vuoi togliere sul serio anche la radice
rivolta tutto il terreno senza paura,
non basta cambiar la crosta e la superfice
ma devi volere proprio cambiar coltura.

Se non cambi la coltura, se non fai presto
a togliere la radice ma tutta quanta,
ti trovi ad avere fatto solo un innesto
sul quale si riproduce la mala pianta.

Non basta cambiar concime, cambiar letame
perché quella nuova pianta nasca diversa
finché le radici restano quelle grame
è solo materia prima che viene persa..

La pianta, che cresca poco o che cresca molto,
estirpala prima che sia cresciuta ancora;
è meglio perdere un anno tutto il raccolto
piuttosto che tutto il campo vada in malora.

Estirpa la mala pianta, ma tutta intera
perché non produca seme e non faccia frutto
quel frutto che fa venire la peste nera
quel seme che da soltanto la morte e il lutto.

Non basta stare a contare le nostre medaglie
ricordo dei nostri morti caduti allora;
bisogna affrontare tante nuove battaglie
per togliere il marcio che ci avvelena ancora..

Quel marcio che ci avvelena città e officina,
famiglia, caserma, scuola e tribunale
quel marcio che può di nuovo portar rovina,
che può fare andare il nuovo raccolto a male.

Fascismo è questo marcio che ci ricatta
che cambia colore ma resta sempre quello,
che sopra l'orbace ha messo la cravatta
e che chiama sfollagente il manganello.

Gli sbirri fascisti ancora sono protetti
da quei vecchi protettori, sempre da quelli
che un tempo gli han fatto uccidere Gobetti
e adesso gli fanno uccidere Pinelli.

E quei vecchi protettori son parassiti
che cambiano il vino buono tutto in aceto
ma noi gli dobbiam gridare più forte e uniti
che non ci può più bastare piazza Loreto.

lunedì 9 marzo 2015

A ciascuno era affidato il compito di vegliare sulla solitudine dell'altro

Circa due anni e mezzo fa (settembre 2012) mi era capitato di fare una riflessione sui calzini e sul destino che inevitabilmente li lega a coppie. La stessa cosa naturalmente è valida anche per i guanti, a meno che non si tratti di guanti da forno, ad esempio. Ieri è successo il brutto: un guanto è andato perduto. Non lo ritroverò mai più. Il suo gemellino è ora solo. Questa notte l'ho fatto dormire sul cuscino accanto al mio, ora sento i suoi occhi che non ha su di me. Le sue dita mi indicano, tutte e cinque insieme. Mi accusa. Una parte vagamente razionale mi avvisa che i guanti probabilmente non hanno la capacità di serbare rancore, ma nonostante ciò mi sembra di avergli fatto uno sgarbo -seppur ovviamente involontario- imperdonabile. Non riuscirò mai più a ricucire il rapporto che c'era prima tra me e lui. Non ricordo neppure quanti anni avevano passato insieme... ed ora si trova solo. Mi spiace veramente molto. Intanto fuori nevica. Domani se farà freddo mi metterò le mani in tasca.

venerdì 13 febbraio 2015

E poi ascolterò uno che suona il sax mentre passo accanto ai grattacieli

Un mese fa è successo che sono arrivato in Canada. A Montréal. Quasi causa dialogo iperlungo col poliziotto di frontiera perdevo la coincidenza e mi fermavo a Toronto, ma alla fine ce l'ho fatta. La domanda tipica che mi han fatto in molti (poliziotto di frontiera incluso) e che qualcuno ancora mi fa è perché abbia deciso di svernare qui. Bah, mi sembrava una bella scelta per svariate ragioni: un posto in cui non conosco nessuno, che non ho mai visto, dove ci sono temperature più basse che a Novosibirsk e di media ci sono tre turisti a settimana in questo periodo. Perfetto. E infatti la cosa che più mi ha colpito è la tranquillità dei parchi innevati, dove -nei giorni più freddi- non si incontrano manco gli scoiattoli.
Comunque, ho festeggiato il primo mese canadese e ho reputato l'occasione degna di una classifica di più e meno. In realtà la coincidenza era ieri, ma poi non avevo voglia di scrivere e sono andato a vedere le scimmiette al bioparco. 
Dunque, alcune cose belle di Montréal:
+c'è il latte al cioccolato fondente e quello alla vaniglia è buono assai
+fa freddo, ma di quel freddo che si formano i cristalli di ghiaccio sulla barba, come agli sciatori di fondo
+ho trovato una casa con la gatta inclusa (ma l'avevo cercata già dall'Italia con questo requisito)
+sto imparando del francese... una lingua che però continua a non piacermi
+in mezzo alla città c'è un parco con le foreste
+anche ai lati della città ci sono dei parchi con le foreste
+ci sono strade lunghissime, va bene camminare anche un'ora e poi decidere di tornare indietro e non ci si perde
+tutto sommato non costa eccessivamente viverci
+ho un letto matrimoniale
+ci sono ancora le lucine di Natale che a me piacciono tanto
Alcune cose brutte di Montréal:
-la vendita di aragoste vive, che lo fanno ovunque anche in Italia ma queste ogni volta che passo mi guardano con quegli occhietti tipo Pizzicottino con Homer Simpson
-la metro, troppa gente che la prende e un numero sorprendente di guasti
-il ghiaccio sulle strade
-la gente che non sa usare le scale (questo potrebbe meritare un post a parte)
-la gente che non sa usare i marciapiedi
-le temperature eccessivamente alte nei luoghi chiusi... capisco che possa stare sul culo l'inverno, ma prima o poi arriverà anche qui la primavera, si potrebbe aspettare senza problemi
-devo alzarmi e aprire una porta che dà direttamente sul gelo alle 6 e mezza di mattino per far uscire la gatta (sì, lei avrebbe pure più motivi di me di lamentarsi, ma gli ordini che mi sono stati impartiti sono questi)
-la mozzarella e la scamorza costano assai
-i testimoni di Geova mi hanno importunato pure qui