+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Ho visto le porte scorrere lentamente per chiudersi giusto davanti a me, come nei film si chiudono davanti alla faccia del protagonista, mentre parte una musica leggermente triste in sottofondo. In una commedia, al posto della musica triste, il protagonista con un colpo di scena all'ultimo secondo sarebbe saltato tra quelle porte e tutto sarebbe finito bene. Invece fuori dalla commedia tutto sarebbe finito e basta. In quel momento ci sono altre persone intorno, non tantissime ma neppure poche, eppure è come se mi avessero messo in una cella di massima sicurezza, isolato. Per un attimo c'è uno sguardo a cui ancora do importanza, cerco di leggerci parole che probabilmente non ha mai voluto esprimere, una mia libera interpretazione.
+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Un gesto di stizza, un insulto malcelato, una reazione strabordante. D'un tratto la mano è sul collo e stringe la presa, avvolgente. Posso sentire la lenta ricrescita di una barba che si intuisce poter essere folta, a cui segue una zona di pelle morbida. Sotto, la cartilagine lievemente appuntita del pomo d'adamo si muove al ritmo delle deglutizioni, mentre di lato si può sentire il leggero pulsare della carotide e il calore del sangue. Un uomo così grande sembra avere gli occhi improvvisamente piccoli, pure se ora sono spalancati. La bocca leggermente aperta gli conferisce un'espressione incredula e spaventata. Stavolta non è una libera interpretazione, quello sguarda significa proprio paura. Ogni tanto sento ancora sulle dita il piacere sadico di quella presa e anche se il mio sguardo non lo ammette, capita anche a me di aver paura.
+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Una carta magica che mi ha permesso più volte di galleggiare, i gemelli che si inseguono e litigano per decidere se stare all'ombra o al sole.
+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Ho visto un'amica, con il gusto di rivedersi dopo tanto tempo e ritrovarsi al primo abbraccio con la stessa sintonia di dieci anni prima. L'ho sentita scorrere e crescere nei suoi racconti, divenuta così diversa da quella ragazza che avevo conosciuto all'epoca, ma così uguale nelle nostre battute e nella capacità di capirsi al volo.
+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Un casolare esteticamente rivedibile, un parallelepipedo bianco nel mezzo dei campi e dei vigneti, con molti lavori in corso, un salone adibito ad area tiro con l'arco giapponese, una roulotte semiribaltata all'inizio del viale, in curva, per rendere difficile il passaggio delle macchine. Nello stanzone che fa da soggiorno e da cucina uno o più topi attendono le tenebre per sgranocchiare lo sgranocchiabile. Sul soffitto molti folcidi e senza che me ne renda conto per la prima volta dormo senza terrore di avere degli aracnidi a poca distanza da me.
+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-La neve, un unico giorno di neve in quel paese dove passo le mie estati. Un unico giorno in cui tutto è coperto di bianco, come ci si aspetterebbe che sia lassù al nord. Quel giorno ho avuto la fortuna di poter fare un giro in tranquillità, con quel rumore di ossa sbriciolate sotto i piedi, godendo del vento freddo e dei cristalli che sferzavano la pelle. Un unico giorno in cui all'indifferenza scontata e triste degli adulti ho preferito la gioia dei bambini.
+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Il fuoco ha bruciato tutto il bruciabile, sono passati mesi da quando è accaduto, ma l'odore è ancora forte e ben presente. Mi piace quel tipo di odore di legno bruciato che mi ricorda di tempi in montagna, della pizzetta del mercoledì tornando dal mercato, una delle poche interruzioni della routine, oppure la stufa di una casa austera di pietre chiare, così in contrasto con il buio interno. Ma lassù è rimasto solo il nero degli arbusti bruciati, una chiazza molto ampia che si vede anche dal minuscolo gruppo di case in cui mi trovo a passare qualche settimana. Non passerà inosservata per lungo tempo.
+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Il regno di ghiaccio. Il collo del gatto. Ha un nome morbido ma una salita dura. Una camminata che porta direttamente sul ghiacciaio, il vento soffia tra le spianate azzurre. Visto da lassù sembra enorme, rende risibile ciò che l'occhio del turista vede (e apprezza) normalmente.
+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Il sottosuolo mi affascina. Non solo nella sua accezione di dimora per cadaveri, ma anche per quella sua capacità di aprirsi improvvisamente in regge eleganti, saloni maestosi retti da pilastri in eterna costruzione, goccia dopo goccia, millennio dopo millennio. Una delle meraviglie della natura: mentre noi corriamo con le nostre vite piene di affanni e vuote di paziemza, ci preoccupiamo del tempo che passa inesorabile, lasciando poi spazio ai nostri figli, ai nostri nipoti, poi ancora ai nipoti dei nipoti e alle loro preoccupazioni, una goccia si affaccia lentamente e timida si chiede "che faccio, mi butto?", senza che la goccia alle sue spalle le dica mai di sbrigarsi.
+Chiudi gli occhi. Riaprili. Cosa hai visto?
-Frammenti di vita che restano legati a persone di passaggio, attimi di bellezza che ci scambiamo con gente che non abbiamo mai visto prima e che probabilmente non rivedremo più. Dalla bruttura della massa si ergono all'improvviso figure che destano interesse. Negli aeroporti, in una stazione, in una camera sovraffollata di un ostello. Come Simon, pazzo hooligan olandese, Aielet che vuol costringermi a fumare, una giovane tedesca di cui non ho saputo neppure il nome con cui si parla di viaggi per tutta la sera, Olivia che è da un anno e oltre che va in giro per l'Europa e nel suo campionario di esseri sottoposti ai suoi studi psicologici per qualche ora mette pure me. O come una ragazza con un nome luminoso e un sorriso ancora umido che mi dorme accanto stanca ma tranquilla e rassicurata solo dalla presenza di uno sconosciuto.
venerdì 30 dicembre 2016
Dieciscatti 2016 la carica dei 300
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sabato 3 dicembre 2016
Nell'estate del 97 sorridevo divertito
Nell'estate del 1998 ricevetti una cartolina da Simona. Era agosto. Mi aveva scritto da Oslo e ricordo benissimo che quando vidi quella foto provai una grandissima invidia. La cartolina, senza voler accusare Simona di aver cattivo gusto, non è che rendesse particolarmente giustizia alla capitale norvegese: montagne di luci si riflettevano su se stesse e si fondevano con altre in un effetto abbastanza sfuocato, sotto a una nube nera in un cielo arancione-azzurrognolo, mentre in un angolo campeggiava la scritta quantomeno approssimativa "Oslo by night". Ma avrei voluto esserci io a Oslo. E invece in quelle settimane mi trovavo a neanche cento chilometri da casa, nella valle bergamasca dove erano soliti passare le vacanze i miei nonni. Per mia nonna, sarebbe stata l'ultima estate.
A Oslo io non c'ero mai stato e della Norvegia non sapevo praticamente nulla. Non sapevo cos'era un fiordo, non avevo idea di quale fosse il ghiacciaio più grande, neanche ero tanto sicuro se ci fossero montagne o se fosse una terra pianeggiante piena di laghi come la Finlandia. Ovviamente non parlavo neppure una parola di norvegese e non avrei mai sospettato che da quelle parti si parlassero due varianti differenti della stessa lingua. Eppure avrei voluto veramente essere là, con o senza Simona. Guardavo la cartolina e pensavo "chissà se un giorno riuscirò ad andare là". Il Nord era una necessità. Non doveva proprio essere Oslo, poteva essere qualsiasi altra città di lassù, andava bene qualsiasi cosa, Norvegia, Svezia, pure Danimarca, poco importava. Non era passato poi così tanto tempo da quando c'ero stato. Era l'estate del 1997 quando passai un mese in Finlandia e da allora il Nord me lo portavo dentro. Avrei tanto voluto tornarci. E invece avevo l'impressione che sarebbe stato solo un sogno, quasi impossibile da realizzare. Avrei probabilmente continuato a vedere Simona, ma non il Nord.
Invece non andò così, perché pochi anni dopo, nel 2002, tornai in Finlandia, arrivando fino al nord del Nord, superando il circolo polare. Neanche un anno dopo, passai dalla Danimarca e dalla Norvegia, ma soprattutto passai dieci mesi in Svezia. Poi un altro mese in Norvegia, prima di tornare in Italia. Con lo stesso timore che la mia vita potesse consumarsi lontano dal Nord, che sicuramente sarebbe rimasto impassibile e del tutto indifferente a una mia eventuale assenza.
E invece, di nuovo, non andò così. Non ci furono più stacchi. Da allora, fortunatamente, ogni anno posso tornare nel Nord, almeno in una piccola parte di quella zona di cui non sapevo nulla o quasi. Quest'anno ho passato più tempo in Norvegia che in Italia o altrove. Quando sto lassù, abito accanto a un fiordo, vicino al ghiacciaio più esteso dell'Europa continentale, senza dubbio so che le montagne da quelle parti sono molte. Riesco vagamente a parlare una lingua bastarda, un miscuglio tra svedese, norvegese e dialetti vari.
Simona invece non ho idea di cosa faccia e di dove abiti ora. Già a settembre, nel 1998, ci si salutava solo per casualità. Non per motivi particolari, ma era una di quelle persone che si incrociano per un po' e poi svaniscono. L'ultima volta che l'ho vista forse è stato nel 2000, o altrimenti poco oltre. Nonostante ciò, penso anche a lei ogni volta che arrivo là. E quando ora qualcuno mi chiede di Oslo, rispondo che per me è una città carina, ma niente di che. Poi, quasi sempre, mi viene in mente quella cartolina.
A Oslo io non c'ero mai stato e della Norvegia non sapevo praticamente nulla. Non sapevo cos'era un fiordo, non avevo idea di quale fosse il ghiacciaio più grande, neanche ero tanto sicuro se ci fossero montagne o se fosse una terra pianeggiante piena di laghi come la Finlandia. Ovviamente non parlavo neppure una parola di norvegese e non avrei mai sospettato che da quelle parti si parlassero due varianti differenti della stessa lingua. Eppure avrei voluto veramente essere là, con o senza Simona. Guardavo la cartolina e pensavo "chissà se un giorno riuscirò ad andare là". Il Nord era una necessità. Non doveva proprio essere Oslo, poteva essere qualsiasi altra città di lassù, andava bene qualsiasi cosa, Norvegia, Svezia, pure Danimarca, poco importava. Non era passato poi così tanto tempo da quando c'ero stato. Era l'estate del 1997 quando passai un mese in Finlandia e da allora il Nord me lo portavo dentro. Avrei tanto voluto tornarci. E invece avevo l'impressione che sarebbe stato solo un sogno, quasi impossibile da realizzare. Avrei probabilmente continuato a vedere Simona, ma non il Nord.
Invece non andò così, perché pochi anni dopo, nel 2002, tornai in Finlandia, arrivando fino al nord del Nord, superando il circolo polare. Neanche un anno dopo, passai dalla Danimarca e dalla Norvegia, ma soprattutto passai dieci mesi in Svezia. Poi un altro mese in Norvegia, prima di tornare in Italia. Con lo stesso timore che la mia vita potesse consumarsi lontano dal Nord, che sicuramente sarebbe rimasto impassibile e del tutto indifferente a una mia eventuale assenza.
E invece, di nuovo, non andò così. Non ci furono più stacchi. Da allora, fortunatamente, ogni anno posso tornare nel Nord, almeno in una piccola parte di quella zona di cui non sapevo nulla o quasi. Quest'anno ho passato più tempo in Norvegia che in Italia o altrove. Quando sto lassù, abito accanto a un fiordo, vicino al ghiacciaio più esteso dell'Europa continentale, senza dubbio so che le montagne da quelle parti sono molte. Riesco vagamente a parlare una lingua bastarda, un miscuglio tra svedese, norvegese e dialetti vari.
Simona invece non ho idea di cosa faccia e di dove abiti ora. Già a settembre, nel 1998, ci si salutava solo per casualità. Non per motivi particolari, ma era una di quelle persone che si incrociano per un po' e poi svaniscono. L'ultima volta che l'ho vista forse è stato nel 2000, o altrimenti poco oltre. Nonostante ciò, penso anche a lei ogni volta che arrivo là. E quando ora qualcuno mi chiede di Oslo, rispondo che per me è una città carina, ma niente di che. Poi, quasi sempre, mi viene in mente quella cartolina.
martedì 8 novembre 2016
The starman
In un'epoca in cui definirmi bambino era più che accurato anche -e forse soprattutto- da un punto di vista prettamente anagrafico, capitò che ci fu una sera in cui arrivò un signore a passare del tempo in ciarle nella casa in cui stavo e in cui di tanto in tanto mi capita di stare pure nell'attualità. Quel signore parlava parlava parlava, snocciolava parole su parole inerenti ad argomenti che non ricordo io e probabilmente non ricordano neppure gli altri presenti. A un certo punto però mi parlò delle stelle, evidenziando come esse non fossero tutte uguali tra loro e come fossero diverse da quanto io bambino anagrafico -e non solo- mi aspettassi. Nane rosse. Nane bianche, quelle degeneri delle nane bianche! Nane nere, eventualmente, non certe, ipotetiche. Le stelle del resto rimangono là, lontane lontane lontane, possiamo anche pensare che dove c'è il buio ce ne fosse ipoteticamente una. O ce ne sia una spenta. Nera. Che sul nero visibile da qui, non risalta più di tanto. Quel signore disse tante cose sulle stelle. E anche sui pianeti, tipo che se uno non ci fa attenzione e vede un puntino luminoso in cielo pensa che è una stella e invece poi se si fosse informato per benino avrebbe saputo che sta guardando un pianeta. Poi volendo uno si può anche informare proprio bene e sapere addirittura quale pianeta sta visionando nella notte buia e profonda ricca di mostri trasparenti trapuntati piuminati stellati e solitari (perché la loro caratteristica principale è comunque la trasparenza e tra di loro non si vedono e allora sono convinti che nell'immensità forse infinita dell'universo sono soli, invece si sbagliano, perché noi, o almeno quelli di noi che passano più tempo del dovuto a guardare il cielo, li vediamo e possiamo capire che sono svariati). Dopo aver accumulato un po' di nozioni sulle stelle, apparivo interessato all'argomento. Qualcuno pensa che sia brutto non accontentarsi della bellezza e voler vedere cosa ci sia dietro. Ma poi qualcun altro, con cui sono abbastanza d'accordo, disse che un bel tramonto, anche quando pensiamo che sia il frutto di una grossa fusione nucleare, resta comunque un bel tramonto.
Capitò in seguito che quel signore mi regalasse il suo telescopio, una cosa che a me bambino sembrava enorme e forse lo era veramente. Aveva un filtro verde scuro per guardare la luna. Un altro filtro scurissimo serviva per guardare il sole. Le luci della città non erano l'ideale per scrutare il cielo. Lui per motivi suoi non aveva più da usare il telescopio, non gli serviva più. Credo di aver deluso molto le sue aspettative, anche se lui non l'ha mai saputo io il suo telescopio l'ho lasciato inutilizzato sul balcone e dopo poco tempo ho assistito al suo smembramento. Ci possono stare tante cose su un balcone: i vasi, gli innaffiatoi, dei cestoni, i fagiolini da tagliare, le biglie, le partite di pallone e il torneo di calcetto in solitudine, la gatta, i panni stesi, la valigia che prende aria, le scarpe bagnate, l'ombrello ad asciugare, io che leggo i fumetti. Il telescopio no, e ora da tanti tanti tanti anni non c'è più. Non saprei dire dove sono finiti i suoi pezzi e probabilmente avendo l'occasione non saprei neppure rimontarlo. Ma tanto le luci della città non sono l'ideale per scrutare il cielo. Adesso è ancor peggio rispetto a quell'epoca in cui ero bambino e il signore mi parlò delle stelle.
Anni dopo, in un'epoca in cui forse per definirmi anagraficamente sarebbe azzeccato utilizzare il termine inglese teenager, mi capitò di passare dalla casa del signore delle stelle. Ogni volta che mi capita di passare sulla via in cui stava casa sua, penso a lui. E penso al suo gatto. I gatti e i cani sono anch'essi cristalli. Per me un gatto o un cane che ero abituato a vedere nel 1988, non ha ragione di essere morto. Potrebbe essere che sia ancora lì in quel cortile dove stava nel 1988. Casa sua puzzava di piscio di gatto all'ingresso, perché lì c'era la lettiera. Poi in sala c'era un odore abbastanza pungente di fumo. Fumava molto il signore delle stelle. Eravamo a casa sua per portargli un piccolo regalo. In quell'occasione, scoprii l'esistenza di Charles Bukowski e della follia come concetto ordinario.
Passarono molti anni. In alcuni di essi mi capitò di parlare col signore delle stelle per telefono, normalmente inventando scuse per dire che mia mamma non era reperibile anche se in realtà lo era. Non per scelta mia per fargli sgarbo, erano ordini dettati dall'alto. Mi succedeva anche di incrociare il signore delle stelle per strada e di salutarlo, senza molte altre parole. Anzi, col tempo le parole divennero sempre meno. E anche gli incroci, perché spesso quando vedo una persona che conosco la evito. Anzi ogni tanto esco con la voglia di incontrare qualcuno che conosco giusto per cambiare strada e poi riuscire a non farmi vedere.
L'ultima volta che parlai con l'uomo delle stelle, fu perché mi chiese se avessi un euro. Non perché mi conoscesse e gli servisse quell'euro in modo impellente per fare qualcosa di importante, ma perché era divenuta sua abitudine chiedere soldi ai passanti. Per comprarsi le brioche, il bicchiere di vino bianco all'osteria della stazione o le sigarette.
La sanità mentale è un'imperfezione e negli anni l'uomo delle stelle aveva fatto un po' di passettini verso la perfezione. Ormai non lo si vedeva più in giro, pare che fosse finito in una sorta di comunità, non mi sono mai informato più di tanto.
Arrivò anche l'ultima volta in cui lo vidi, magro, molto magro, rasato di barba e di capelli, sguardo vuoto e giacca pesante in un giorno caldo. E così l'ultima volta che lo vidi, pensai come fosse possibile che non avesse caldo.
Questo post l'avrei voluto scrivere qualche mese fa, in estate, in occasione del suo funerale. Ma poi la mia pigrizia mi ha ostacolato. Ma ho ripensato a lui in queste sere, in questo paesino che non ci riesce molto bene ad assomigliare a una città, in cui le ore di buio sono più di quelle di luce, dove i lampioni ultimamente non si accendono e dunque quando il cielo è terso si vedono benissimo le stelle.
Ciao Ennio.
Capitò in seguito che quel signore mi regalasse il suo telescopio, una cosa che a me bambino sembrava enorme e forse lo era veramente. Aveva un filtro verde scuro per guardare la luna. Un altro filtro scurissimo serviva per guardare il sole. Le luci della città non erano l'ideale per scrutare il cielo. Lui per motivi suoi non aveva più da usare il telescopio, non gli serviva più. Credo di aver deluso molto le sue aspettative, anche se lui non l'ha mai saputo io il suo telescopio l'ho lasciato inutilizzato sul balcone e dopo poco tempo ho assistito al suo smembramento. Ci possono stare tante cose su un balcone: i vasi, gli innaffiatoi, dei cestoni, i fagiolini da tagliare, le biglie, le partite di pallone e il torneo di calcetto in solitudine, la gatta, i panni stesi, la valigia che prende aria, le scarpe bagnate, l'ombrello ad asciugare, io che leggo i fumetti. Il telescopio no, e ora da tanti tanti tanti anni non c'è più. Non saprei dire dove sono finiti i suoi pezzi e probabilmente avendo l'occasione non saprei neppure rimontarlo. Ma tanto le luci della città non sono l'ideale per scrutare il cielo. Adesso è ancor peggio rispetto a quell'epoca in cui ero bambino e il signore mi parlò delle stelle.
Anni dopo, in un'epoca in cui forse per definirmi anagraficamente sarebbe azzeccato utilizzare il termine inglese teenager, mi capitò di passare dalla casa del signore delle stelle. Ogni volta che mi capita di passare sulla via in cui stava casa sua, penso a lui. E penso al suo gatto. I gatti e i cani sono anch'essi cristalli. Per me un gatto o un cane che ero abituato a vedere nel 1988, non ha ragione di essere morto. Potrebbe essere che sia ancora lì in quel cortile dove stava nel 1988. Casa sua puzzava di piscio di gatto all'ingresso, perché lì c'era la lettiera. Poi in sala c'era un odore abbastanza pungente di fumo. Fumava molto il signore delle stelle. Eravamo a casa sua per portargli un piccolo regalo. In quell'occasione, scoprii l'esistenza di Charles Bukowski e della follia come concetto ordinario.
Passarono molti anni. In alcuni di essi mi capitò di parlare col signore delle stelle per telefono, normalmente inventando scuse per dire che mia mamma non era reperibile anche se in realtà lo era. Non per scelta mia per fargli sgarbo, erano ordini dettati dall'alto. Mi succedeva anche di incrociare il signore delle stelle per strada e di salutarlo, senza molte altre parole. Anzi, col tempo le parole divennero sempre meno. E anche gli incroci, perché spesso quando vedo una persona che conosco la evito. Anzi ogni tanto esco con la voglia di incontrare qualcuno che conosco giusto per cambiare strada e poi riuscire a non farmi vedere.
L'ultima volta che parlai con l'uomo delle stelle, fu perché mi chiese se avessi un euro. Non perché mi conoscesse e gli servisse quell'euro in modo impellente per fare qualcosa di importante, ma perché era divenuta sua abitudine chiedere soldi ai passanti. Per comprarsi le brioche, il bicchiere di vino bianco all'osteria della stazione o le sigarette.
La sanità mentale è un'imperfezione e negli anni l'uomo delle stelle aveva fatto un po' di passettini verso la perfezione. Ormai non lo si vedeva più in giro, pare che fosse finito in una sorta di comunità, non mi sono mai informato più di tanto.
Arrivò anche l'ultima volta in cui lo vidi, magro, molto magro, rasato di barba e di capelli, sguardo vuoto e giacca pesante in un giorno caldo. E così l'ultima volta che lo vidi, pensai come fosse possibile che non avesse caldo.
Questo post l'avrei voluto scrivere qualche mese fa, in estate, in occasione del suo funerale. Ma poi la mia pigrizia mi ha ostacolato. Ma ho ripensato a lui in queste sere, in questo paesino che non ci riesce molto bene ad assomigliare a una città, in cui le ore di buio sono più di quelle di luce, dove i lampioni ultimamente non si accendono e dunque quando il cielo è terso si vedono benissimo le stelle.
Ciao Ennio.
lunedì 23 maggio 2016
Bye bye déjà
Aprile fu ventoso, come tanti anni prima. Vicino scorreva un fiume, lontano le città. Di notte le rane gracidavano e brillavano le stelle, di giorno pioggia e sole si potevano alternare senza fornire sostanziali differenze a chi ci viveva sotto. Un giorno vidi un fiume che fino a poche ore prima non esisteva. Scorreva senza particolare impeto in un letto preposto al suo passaggio. Un canale quasi sempre vuoto che d'improvviso si riempiva, per tornare vuoto e secco dopo poco tempo. Molte cose tendono a somigliarsi se non si bada alla forma, ma piuttosto al contenuto. Senza cascate, si potevano trovare conchiglie stupende.
Cominciai di nuovo a riempire buche, scavate dai cinghiali durante l'inverno. Poi tolsi molti sassolini, per rafforzare gli argini. Di nuovo buche. Vuote. Piene. E poi alveari abbandonati, tetti scoperchiati, raccolte interminabili di foglie e rami.
Arrivarono i tedeschi, come tanti anni prima. Poche parole per loro e un disprezzo crescente.
Un gatto nero con una piccolissima macchia bianca sul collo passava veloce sullo sterrato, le lumache al contrario si inseguivano lentamente, senza trovarsi prima che arrivasse il buio. Un ragno di dimensioni notevoli non riusciva a scavalcare i bordi di un'insalatiera.
Nel frattempo contai macchine, ascoltai canti partigiani francesi e pensai a quanto fosse labile il concetto di bellezza: la decadenza di fabbriche in disuso, gli alberi che crescevano tra le finestre, erano fantastici per me, ma non per un uomo che passava nello stesso momento da quelle parti in macchina.
Mi trasferii poco distante, sempre lungo lo stesso fiume, per caricare foglie, tronchi segati ed erba ormai secca su una cariola per viaggi infiniti, e ancora rami spezzati ovunque, rami tranciati, cesoie e forbici. Passai di nuovo molto tempo a tagliare. Dopo moltissimi anni persi di nuovi i sensi, assaporando per un attimo la bella sensazione di non sapere, non vedere, non sentire, non capire, non esserci.
Sulle montagne ritrovai la libertà, perdendomi sempre più rapidamente, pestando i ricci con le mani, camminando sui cespugli, ingrovigliandomi nelle spine, respirando l'odore del legno bruciato sulla cresta della montagna annerita. Andai a visitare anche l'abisso, luogo gradevole come spesso succede. All'uscita il sole splendeva fortissimo.
Cominciai di nuovo a riempire buche, scavate dai cinghiali durante l'inverno. Poi tolsi molti sassolini, per rafforzare gli argini. Di nuovo buche. Vuote. Piene. E poi alveari abbandonati, tetti scoperchiati, raccolte interminabili di foglie e rami.
Arrivarono i tedeschi, come tanti anni prima. Poche parole per loro e un disprezzo crescente.
Un gatto nero con una piccolissima macchia bianca sul collo passava veloce sullo sterrato, le lumache al contrario si inseguivano lentamente, senza trovarsi prima che arrivasse il buio. Un ragno di dimensioni notevoli non riusciva a scavalcare i bordi di un'insalatiera.
Nel frattempo contai macchine, ascoltai canti partigiani francesi e pensai a quanto fosse labile il concetto di bellezza: la decadenza di fabbriche in disuso, gli alberi che crescevano tra le finestre, erano fantastici per me, ma non per un uomo che passava nello stesso momento da quelle parti in macchina.
Mi trasferii poco distante, sempre lungo lo stesso fiume, per caricare foglie, tronchi segati ed erba ormai secca su una cariola per viaggi infiniti, e ancora rami spezzati ovunque, rami tranciati, cesoie e forbici. Passai di nuovo molto tempo a tagliare. Dopo moltissimi anni persi di nuovi i sensi, assaporando per un attimo la bella sensazione di non sapere, non vedere, non sentire, non capire, non esserci.
Sulle montagne ritrovai la libertà, perdendomi sempre più rapidamente, pestando i ricci con le mani, camminando sui cespugli, ingrovigliandomi nelle spine, respirando l'odore del legno bruciato sulla cresta della montagna annerita. Andai a visitare anche l'abisso, luogo gradevole come spesso succede. All'uscita il sole splendeva fortissimo.
lunedì 25 aprile 2016
25 aprile 2016
E a chi voleva la libertà
cosa gli diciamo?
Ai compagni morti per niente
cosa raccontiamo?
Che un pelato appeso a testa in giù
poteva bastarvi?
Caro Valerio,
non dovevate fermarvi.
cosa gli diciamo?
Ai compagni morti per niente
cosa raccontiamo?
Che un pelato appeso a testa in giù
poteva bastarvi?
Caro Valerio,
non dovevate fermarvi.
sabato 23 aprile 2016
E s'apre di spine e cardi la mia pelle
Quando arrivò il tre, me ne andai verso le vigne. Era vero che in quella zona c'erano rapaci. Era vero che c'erano anche alcuni avvoltoi. Vidi subito delle aquile, furono le uniche a Bourdic. Iniziai a interpretare molte attività in maniera simbolica. Tagliammo principalmente rami. Cesoie senza molla per fare più fatica. Alla fine furono circa 1700 le piante amputate, mentre più sicuro era il numero di ragni che vivevano sui soffitti del salone e del bagno: 68. Così tanti e io così indifferente, come se non li avessi mai temuti, come se non fossero mai stati un incubo, il terrore, un salto dall'auto in corsa o il rigurgito di una notte di fine estate. Trovavo più noioso il topo che la mattina presto decideva di rosicchiare cibi in sacchetti rumorosi, che portavano via un po' di tempo al sonno.
Un giorno dietro di me ci fu un regista famoso e davanti un attore al suo primo lungometraggio.
Il tiro con l'arco giapponese aveva troppi rituali e la sua lentezza si contrapponeva in modo netto sia alla fuga finale della freccia che alla corsa notturna del cinghiale.
Quando arrivai ad Avignone, continuai a tagliare. Tagliai parti che qualcuno trovava distintive con una facilità che mi fece sorridere. Ero diventato più anonimo all'esterno che all'interno. Il posto che toccava a me era stato occupato da una ragazza argentina nel sangue e nella risata, passammo la serata insieme, bevendo birra comprata da uno sconosciuto a casa di un altro sconosciuto. Quando tornammo ai nostri letti era quasi mattino e prima di addormentarmi le scrissi il mio nome tra le gambe. Pochi giorni dopo, un corvo impagliato mi fissava di nuovo dalla vetrina di un museo.
Passai due settimane a gettare fondamenta per nuove costruzioni, a legare materiali perché potessero stare insieme più tempo e più saldamente. E tagliai di nuovo rami. Di quel periodo ricordo lo yogurt denso e compatto, François il ragno solitario, le monete turche e rumene, un bosco incantato, la musica nella grotta, un fiume adatto alla sparizione, un cane che aspettava l'acqua la mattina e un bambino che forse avrà già sognato tante volte di fare l'astronauta.
L'anno prima pasqua aveva portato la neve e un lungo viaggio. Stavolta, pioggia e pochi passi. Ero di nuovo ad Avignone, non trovai alcuna ragazza argentina, sulla strada principale una voce microfonata ripeteva nomi tempi e complimenti per la vittoria di categoria. Mi chiesi se per caso quel giorno qualcuno avesse perso, poi non ci pensai più e andai tra i negozi che sapevano di lavanda, passando sotto gli sguardi di almeno due decine di madonne affrante.
Andai verso i boschi col timore di sbagliare fermata, invece scesi a quella giusta, a poca distanza da aprile.
Un giorno dietro di me ci fu un regista famoso e davanti un attore al suo primo lungometraggio.
Il tiro con l'arco giapponese aveva troppi rituali e la sua lentezza si contrapponeva in modo netto sia alla fuga finale della freccia che alla corsa notturna del cinghiale.
Quando arrivai ad Avignone, continuai a tagliare. Tagliai parti che qualcuno trovava distintive con una facilità che mi fece sorridere. Ero diventato più anonimo all'esterno che all'interno. Il posto che toccava a me era stato occupato da una ragazza argentina nel sangue e nella risata, passammo la serata insieme, bevendo birra comprata da uno sconosciuto a casa di un altro sconosciuto. Quando tornammo ai nostri letti era quasi mattino e prima di addormentarmi le scrissi il mio nome tra le gambe. Pochi giorni dopo, un corvo impagliato mi fissava di nuovo dalla vetrina di un museo.
Passai due settimane a gettare fondamenta per nuove costruzioni, a legare materiali perché potessero stare insieme più tempo e più saldamente. E tagliai di nuovo rami. Di quel periodo ricordo lo yogurt denso e compatto, François il ragno solitario, le monete turche e rumene, un bosco incantato, la musica nella grotta, un fiume adatto alla sparizione, un cane che aspettava l'acqua la mattina e un bambino che forse avrà già sognato tante volte di fare l'astronauta.
L'anno prima pasqua aveva portato la neve e un lungo viaggio. Stavolta, pioggia e pochi passi. Ero di nuovo ad Avignone, non trovai alcuna ragazza argentina, sulla strada principale una voce microfonata ripeteva nomi tempi e complimenti per la vittoria di categoria. Mi chiesi se per caso quel giorno qualcuno avesse perso, poi non ci pensai più e andai tra i negozi che sapevano di lavanda, passando sotto gli sguardi di almeno due decine di madonne affrante.
Andai verso i boschi col timore di sbagliare fermata, invece scesi a quella giusta, a poca distanza da aprile.
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venerdì 11 marzo 2016
Och tåget rullade en gång till
Dopo l'uno, senza sorprese si presentò il due. Il problema sul quando stare altrove fu mitigato da eventi sportivi in cui si rividero diversi ex compagni di viaggio in quel mondo della pallavolo che ancora fa sentire la sua assenza quando sempre più raramente mi capita di metter piede in una palestra. L'ultima volta, proprio in quel palazzo, dopo un'entrata trionfale accompagnata da insulti di un'intera tifoseria, ci fu l'unico trofeo. Dopo anni, ci fu una stretta di mano e un ringraziamento a chi mi portò la coppa sotto gli occhi. All'uscita pioveva, sia dentro che fuori.
Una mattina mi ritrovai alla stazione dei bus in quel posto dove circa vent'anni prima avevo visto chissà quanti concerti, attaccato alle casse, con le botte fisse sulle creste del bacino, tra l'odore di birra e di marijuana. Invece ero a tanti anni e qualche centinaio di metri di distanza da tutto ciò, con una valigia rossa e un adesivo polacco in attesa. All'arrivo fu Nizza, troppo italiana, tra topi, l'uomo nero e un carnevale che non mi fece divertire. Un passaggio sulle montagne, un altro di ritorno verso il confine, un monastero lasciato vuoto, il freddo al pensiero di dio, la rabbia al pensiero che un pezzo di carta basti a stabilire chi siamo e dove possiamo andare. Venne il tempo di andare a Marsiglia, di cambiare i programmi e di starci solo due giorni, tra il distruttore di Roma e l'aiutante dei siriani. Poi Montpellier. In stazione un tossico rovinò l'entrata in scena. Un giorno piovve forte, fortissimo. Un solo giorno. I gatti miagolavano alle cinque di mattina. Io ero già sveglio, a volte in contemplazione di una madonna dipinta che il tempo aveva velocemente scrostato, rendendola inesistente. A tratti sembrava ci fosse troppo tempo, un'abbondanza da lasciare vuota, non avevo nulla da aggiungere, il mio stupore era fuori luogo e del resto neppure io appartenevo a quel posto. Persi a briscola e non fu un caso. Ci fu da partire e stavolta ero io che lasciavo. C'è sempre un paio d'occhi che se ne va prima dell'altro. A Nîmes passai quel giorno che tre volte su quattro non esiste, incontrando la solitudine. Era davvero in forma e decise di restare.
Una mattina mi ritrovai alla stazione dei bus in quel posto dove circa vent'anni prima avevo visto chissà quanti concerti, attaccato alle casse, con le botte fisse sulle creste del bacino, tra l'odore di birra e di marijuana. Invece ero a tanti anni e qualche centinaio di metri di distanza da tutto ciò, con una valigia rossa e un adesivo polacco in attesa. All'arrivo fu Nizza, troppo italiana, tra topi, l'uomo nero e un carnevale che non mi fece divertire. Un passaggio sulle montagne, un altro di ritorno verso il confine, un monastero lasciato vuoto, il freddo al pensiero di dio, la rabbia al pensiero che un pezzo di carta basti a stabilire chi siamo e dove possiamo andare. Venne il tempo di andare a Marsiglia, di cambiare i programmi e di starci solo due giorni, tra il distruttore di Roma e l'aiutante dei siriani. Poi Montpellier. In stazione un tossico rovinò l'entrata in scena. Un giorno piovve forte, fortissimo. Un solo giorno. I gatti miagolavano alle cinque di mattina. Io ero già sveglio, a volte in contemplazione di una madonna dipinta che il tempo aveva velocemente scrostato, rendendola inesistente. A tratti sembrava ci fosse troppo tempo, un'abbondanza da lasciare vuota, non avevo nulla da aggiungere, il mio stupore era fuori luogo e del resto neppure io appartenevo a quel posto. Persi a briscola e non fu un caso. Ci fu da partire e stavolta ero io che lasciavo. C'è sempre un paio d'occhi che se ne va prima dell'altro. A Nîmes passai quel giorno che tre volte su quattro non esiste, incontrando la solitudine. Era davvero in forma e decise di restare.
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giovedì 25 febbraio 2016
Non importa se dimenticherai il mio nome stasera, perché so che lo ricorderai per il resto della tua vita
Tutto cominciò tra le montagne più vicine, mancate alla vista per una decade circa. Le curve fatte decine di volte tanti anni fa apparivano più affascinanti ma immutate. Una grossa pietra si ergeva come sempre al lato della strada, nulla l'aveva distrutta, solo l'oblio l'aveva resa invisibile.
Fino a poco prima non pensavo che avrei ripercorso piccoli sentieri ricoperti di ceneri estive e foglie arrossate o ingiallite, e fu una questione di pochi minuti, perché la luce naturale se ne stava già andando e di luci artificiali nella radura non ce n'erano. Gli occhi delle braci erano diventati neri.
In casa per lo più si parlava, qualcuno bubolava e i cani erano in attento silenzio.
Il sole riscaldava due gemelli e toccava a me scegliere quale interpretare. Partendo da un concetto base forse poco esplorato ultimamente: se non apri gli occhi non vedi neppure quel che hai davanti.
Venne il primo viaggio, destinazione Budapest, terra di atterraggi con poca visibilità, taxisti precisi, bradipi più veloci di quanto pensassi, di fili spinati e di succhi di frutta buoni.
Venne soprattutto un cambio di accento, da Sòfia in Bulgaria a Sofìa in Portogallo. Una notte scomoda in aeroporto, spiegando a un rumeno come usare un telefono con le impostazioni in tedesco, poi l'arrivo a Porto. E trovare un'amica importante dopo quasi dieci anni per vedere l'effetto che fa. L'effetto fu che certe scelte sono anche giuste, e così spesso quando mi capitava di pensare a qualcosa che sarebbe ripartito uguale a prima come se nulla fosse passato in mezzo, io pensavo proprio a Sofia, immaginandoci seduti in un bar a raccontarci tutto quello che era o non era successo durante le nostre reciproche assenze. Anche Sofia era in un cristallo, ma a differenza di altri, splendeva senza rovinare il buio. Ci sarei potuto passare sopra mille volte senza pungermi, lo sapevo dalla sera d'agosto del 2003 in cui la vidi la prima volta, mentre si parlava di strumenti musicali australiani a un tavolo ancora umido per la pioggia caduta il pomeriggio. Ci fu una certa arroganza -piuttosto circoscritta per quanto concerne il numero di casi- nella presentazione. Un'assenza e un passaggio non premeditato ci davano già ragione. Era facile essere sulla stessa linea. Poi sembravano passati eoni, ma ancora una volta erano bastati pochi minuti per capirsi. Gennaio fu un bel mese.
Fino a poco prima non pensavo che avrei ripercorso piccoli sentieri ricoperti di ceneri estive e foglie arrossate o ingiallite, e fu una questione di pochi minuti, perché la luce naturale se ne stava già andando e di luci artificiali nella radura non ce n'erano. Gli occhi delle braci erano diventati neri.
In casa per lo più si parlava, qualcuno bubolava e i cani erano in attento silenzio.
Il sole riscaldava due gemelli e toccava a me scegliere quale interpretare. Partendo da un concetto base forse poco esplorato ultimamente: se non apri gli occhi non vedi neppure quel che hai davanti.
Venne il primo viaggio, destinazione Budapest, terra di atterraggi con poca visibilità, taxisti precisi, bradipi più veloci di quanto pensassi, di fili spinati e di succhi di frutta buoni.
Venne soprattutto un cambio di accento, da Sòfia in Bulgaria a Sofìa in Portogallo. Una notte scomoda in aeroporto, spiegando a un rumeno come usare un telefono con le impostazioni in tedesco, poi l'arrivo a Porto. E trovare un'amica importante dopo quasi dieci anni per vedere l'effetto che fa. L'effetto fu che certe scelte sono anche giuste, e così spesso quando mi capitava di pensare a qualcosa che sarebbe ripartito uguale a prima come se nulla fosse passato in mezzo, io pensavo proprio a Sofia, immaginandoci seduti in un bar a raccontarci tutto quello che era o non era successo durante le nostre reciproche assenze. Anche Sofia era in un cristallo, ma a differenza di altri, splendeva senza rovinare il buio. Ci sarei potuto passare sopra mille volte senza pungermi, lo sapevo dalla sera d'agosto del 2003 in cui la vidi la prima volta, mentre si parlava di strumenti musicali australiani a un tavolo ancora umido per la pioggia caduta il pomeriggio. Ci fu una certa arroganza -piuttosto circoscritta per quanto concerne il numero di casi- nella presentazione. Un'assenza e un passaggio non premeditato ci davano già ragione. Era facile essere sulla stessa linea. Poi sembravano passati eoni, ma ancora una volta erano bastati pochi minuti per capirsi. Gennaio fu un bel mese.
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